In Puglia le perdite stimate sono di 600 milioni e, benché ArcelorMittal abbia deciso di non fermare l’impianto, lo stabilimento è di fatto in stallo. Il tema ambientale e la crisi produttiva minacciano anche Trieste e Piombino
Dal caos dell’Ilva ai rischi di Arvedi, l’autunno caldo dell’acciaio
Non c’è pace per l’acciaio italiano. A un anno dall’acquisizione dell’ex Ilva da parte di ArcelorMittal, il cantiere a Taranto resta ancora aperto nei suoi nodi nevralgici (ambiente, occupazione, sviluppo industriale). E ora a questo dossier si aggiunge anche quello relativo all’ex Ferriera di Trieste (oggi del gruppo Arvedi), con interrogativi su 400 posti di lavoro e sul futuro dell’area a caldo, dopo la decisione delle istituzioni locali di procedere senza indugio con la richiesta di spegnimento dell’altoforno. Senza considerare Piombino, dove il rilancio della ex Lucchini, con circa 2mila addetti di cui la maggior parte ancora in cassa integrazione, è ancora tutto da scrivere. Incertezze e punti interrogativi che coincidono con una situazione di mercato, soprattutto in Europa, ancora incerta, in un contesto di sovracapacità produttiva conclamata.
Ex Ilva. Sicuramente quando un anno fa, era il 6 settembre, ArcelorMittal ha firmato con i sindacati l’accordo per Ilva, sapeva che non sarebbe stata una passeggiata gestire il gruppo siderurgico e soprattutto lo stabilimento di Taranto, il più grande in Europa. A distanza di 365 giorni, la realtà, per una serie di fattori, sia generali (il mercato che va male), che specifici (i sequestri della magistratura, lo scontro con le istituzioni locali sull’ambiente e con i sindacati sulla cassa integrazione per 1.395 addetti), si presenta più complicata del previsto. Le perdite nel trimestre aprile, maggio, giugno sono state pari a 150 milioni, ha rivelato l’ad di ArcelorMittal Italia, Matthieu Jehl, ai sindacati lo scorso luglio. Più alte della gestione commissariale e con una possibile proiezione, su base annua, di 600 milioni. Tant’è che l’azienda ha messo in campo un piano per ridurle “significativamente” entro il quarto trimestre. Certo, sul management di ArcelorMittal si è appena riaperto l’ombrello dell’immunità penale, sia pure con un perimetro applicativo più circoscritto e limitata al solo piano ambientale, e quindi per ora è scongiurato il rischio di un disimpegno da Taranto (i vertici aziendali lo avevano chiaramente evocato se dal 6 settembre l’immunità non ci fosse stata più). Tuttavia, i problemi da affrontare non sono certo finiti. Vinta a giugno 2017, con un’offerta di circa 4 miliardi tra acquisto e investimenti, la gara lanciata dai commissari straordinari Ilva, ricevuto il via libera di Bruxelles a maggio 2018, fatto poi l’accordo al Mise, ArcelorMittal ha preso le redini del gruppo l’1 novembre. Ed era il 7 novembre quando l’ad Jehl, presentandosi alla stampa a Taranto, disse che avrebbero lavorato subito per centrare alcune priorità: migliorare l’efficienza dello stabilimento, avviare manutenzioni su larga scala, far avanzare gli investimenti annunciati, soprattutto quelli ambientali, considerate le attese della città, segnata da decenni di inquinamento massiccio, oggetto di processi, il più rilevante dei quali tuttora in corso in Corte d’Assise (imputati, tra gli altri, gli ex gestori Fabio e Nicola Riva). Jehl aggiunse che nel 2019 avrebbero cercato di produrre 6 milioni di tonnellate, il livello autorizzato dall’Aia per il siderurgico. Undici mesi dopo il quadro è diverso. Già da maggio scorso l’obiettivo di produzione, causa la crisi del mercato, è stato ritarato da 6 a 5 milioni annui e i 6 milioni spostati al 2020. Ma per ora come ambizione, più che come target, perché la domanda in Europa resta molto incerta. E anche i 5 milioni di tonnellate a fine anno sono lontani. Il primo semestre si è chiuso con 2,34 milioni di tonnellate di acciaio grezzo, la produzione dal primo al secondo trimestre è passata da 12,5 a 13,5 migliaia di tonnellate al giorno, ma i tre altiforni oggi in marcia, 1, 2 e 4, già ridimensionati come attività, a breve scenderanno a due. Il 4 sarà fermato per manutenzione, non più rinviabile. E al 4 fermo, rischia di aggiungersi il 2 se la magistratura dovesse rigettare le due nuove istanze presentate da Ilva in amministrazione straordinaria per scongiurarne lo spegnimento dal 10 ottobre, a seguito di un ri-sequestro della Procura, ed eseguire gli ulteriori lavori di messa in sicurezza.
ArcelorMittal prevede un terzo trimestre in frenata. Negativamente influenzata dalle limitazioni allo scarico delle materie prime necessarie agli altiforni (il quarto sporgente della fabbrica è sequestrato dopo la morte, a luglio, di un gruista, precipitato con la gru in mare per una tromba d’aria), la produzione di acciaio grezzo viene stimata intorno a 970mila tonnellate e quella quotidiana in calo a 10,5 migliaia di tonnellate. Dovrebbe migliorare un po’ il quarto trimestre, tutto dipenderà da quanti altiforni saranno in marcia. Nell’ipotesi, pessimistica ma non del tutto infondata, di un solo altoforno, è evidente che questi numeri salterebbero. Oltre agli altiforni, pesa molto anche l’approvvigionamento di minerali e coke. Col quarto sporgente sequestrato, ArcelorMittal ha dovuto cercare banchine all’esterno. Una l’ha trovata, il molo polisettoriale di Taranto, dove sta scaricando da dopo metà luglio. Ha cercato in questi giorni di andare a Brindisi ma ha trovato l’altolà del sindaco e anche l’ipotesi Gioia Tauro non sembra fattibile. Sulle perdite l’azienda dice che è prematuro dare risposte, però basandosi sul fatto che le condizioni di mercato restino invariate e rimanga l’operatività (riferimento all’altoforno 2), è stato implementato un piano d’azione accelerato. Il piano, si spiega, è una combinazione di ottimizzazione dei costi fissi e variabili.
Infine, c’è un’altra incognita che grava: il riesame dell’Aia avviato dal ministro dell’Ambiente Sergio Costa, che potrebbe approdare a prescrizioni ambientali più stringenti.
Servola e Piombino. Sembra essere destinato definitivamente alla chiusura, invece l’altro altoforno italiano (oltre a quelli di Taranto) ancora attivo in Italia, quello di Servola, che oggi produce ghisa per alimentare l’acciaieria del gruppo Arvedi. Qui, a differenza di Taranto, l’iter relativo agli adempimenti delle prescrizioni ambientali assunte con l’accordo di programma si è concluso, mentre sul piano industriale il sito è pienamente integrato nel ciclo produttivo del gruppo cremonese.
L’impatto ambientale e l’opportunità di dare una nuova vocazione all’area a ridosso della banchina ha portato però le istituzioni locali a un pressing al quale, nei giorni scorsi, l’imprenditore Giovani Arvedi si è arreso suo malgrado. Ora si aprirà un percorso di confronto per discutere come fermare l’attività a caldo, con una serie di incognite legate allo smantellamento e soprattutto alla gestione della dinamica occupazionale.
A Piombino, l’altro ex baluardo della vecchia siderurgia statale italiana, l’altoforno è stato spento nel 2014. Dopo la sfortunata esperienza dell’imprenditore algerino Issad Rebrab, che ha fallito con Cevital il rilancio del sito, gli asset sono passati a Jindal che ha riportato sul mercato i prodotti ex Lucchini riattivando i tre laminatoi esistenti con semiprodotti importati dall’India. Serve una soluzione occupazionale per gli ex addetti dell’area a caldo, oggi in cassa integrazione. Sullo sfondo c’è anche un piano per fare ripartire l’area a caldo, non certo con un altoforno, ma con forni elettrici, più piccoli e meno impattanti dal punto di vista ambientale. Visti i tempi che corrono, però, non c’è fretta.
Matteo Meneghello
Domenico Palmiotti
Fonte: Il Sole 24 Ore